Performance e preparazione mentale

Negli ultimi decenni un numero sempre crescente di atleti, professionisti e non, ha approcciato la pratica della mindfulness. Una parte cospicua di questi ha probabilmente subito il fascino modaiolo di uno dei termini più abusati del millennio, il resto dell’universo ha scoperto uno strumento per aumentare la performance allenando anche una dimensione invisibile e potente: la mente.

Ma in che modo allenare la mente con i protocolli mindfulness può supportare una performance sportiva? Non sono così bravo da saper rispondere a questa domanda, per cui rubo ancora una volta le parole ad alcune icone del mondo dello sport per centrare alcuni dei benefici che la mindfulness produce, se allenata.

Focalizzazione e “flow”

Phil Jackson mitico allenatore NBA, 11 titoli vinti, 6 con i Bulls e 5 con i Lakers, autore del best seller Eleven Rings, l’anima del successo, ha introdotto nelle routine di allenamento la mindfulness già alla fine degli anni 80. 

Quale oscura ragione lo ha spinto a costringere un gruppo di fiere selvagge al silenzio delicato della meditazione?

Una spiegazione la potremmo trovare nella definizione che lui stesso restituisce del basket e delle competenze necessarie per eccellere in questa disciplina: “Il basket è una danza complessa che richiede di spostarsi da un obiettivo all’altro alla velocità della luce. Per eccellere devi poter agire con “clear mind” ed essere totalmente concentrato su tutto quello che gli altri fanno sul campo. Il segreto è non pensare. Che non vuol dire essere stupidi ma significa mettere a tacere il borbottio dei pensieri e lasciare che il corpo faccia istintivamente tutto quello che si è allenato a fare senza che la mente torni a borbottare”

Nel 1992 Michael Jordan nella finale 1 dei playoff contro Portland, compie un’impresa storica: I blazers stanno dominando i bulls e Phil Jackson chiama time out. Jordan esce da quella pausa con una nuova intenzione: nei successivi 18 minuti scarica 6 bombe da 3 e al termine del match segna 39 punti. Chicago annienta Portland e pone le basi per la vittoria del titolo finale. Chiamato a descrivere la grandezza della sua performance, un po’ incredulo racconta di essersi trovato nella “zone”, in uno stato di “flow”. Su questo stato “mentale” sono stati scritti miliardi di pagine e teorizzati diversi modelli; il più noto è della metà degli anni 70 ed è attribuito a Mihaly Csikszentmihalyi, psicologo ungherese. È un modello teorico che spiega bene il perché di performance eccezionali in tutte le discipline, artistiche, management, sport, ricerca.

Tagliando con la scure, non me vogliano gli amanti del metodo, ci troviamo in uno stato di flow quando esiste un perfetto bilanciamento tra la sfida che affrontiamo e le competenze che possediamo. Si entra in questo stato di benessere e performance solo se si desidera genuinamente fare quello che facciamo. 

In quasi tutte le definizioni di questo stato “ottimale” ricorrono alcuni elementi che lo rendono comprensibile perché almeno una volta nella vita o nello sport li abbiamo sperimentati:

  • sono talmente “ingaggiato” in quello che sto facendo che il tempo passa in un attimo
  • sono estremamente concentrato e allo stesso tempo libero da ogni pensiero
  • le cose avvengono in modo istintivo, naturale, senza che mi sforzi di pensare e sono quelle giuste
https://www.youtube.com/watch?v=tUC5s9VwwCE

La mindfulness aumenta la concentrazione, la focalizzazione al momento presente e abilita questo stato magico, lo rende possibile e soprattutto reiterabile.

Resilienza 

un termine che non mi è mai piaciuto che sta ad indicare la capacità di reagire in modo positivo e costruttivo agli eventi traumatici.

Nole  Djokovic, detto l’immortale, oggi 12° nel ranking ATP  è stato numero 1 per 223 settimane e verrà ricordato non solo per il talento, le risposte al servizio e la resistenza atletica, ma anche per la capacità di ribaltare situazioni disperate. Due esempi su tutti: le semifinali US Open 2010 e 2011 nelle quali ha annullato 4 match point a sua maestà Roger Federer per poi vincere la partita.

“Nella sua biografia il “punto vincente” Djokovic dice che meditare gli ha permesso di lasciar andare le emozioni negative, come un doppio fallo, la rabbia, la preoccupazione, e questo ha fatto la differenza nell’approccio mentale al match. Per lui l’allenamento mentale ha la stessa importanza di quello fisico ed è convinto che dedicare con costanza tempo alla pratica meditativa porti benefici significativi alla performance.” Tratto da Djokovic’s New Tennis Psychology di Neil Endicott

Aspettative

Un altro fattore che spiega performance eccellenti, è la capacità di gestire al meglio le aspettative e tutti i prodotti buoni e cattivi che alimentano. Proviamo a immaginare lo stato mentale di chi affronta una competizione olimpica: 4 anni di sacrifici quotidiani, di rinunce, disciplina militare, infortuni e la consapevolezza, spesso, di avere una sola chance. Sono pochi gli atleti che partecipano a più giochi olimpici, sono pochi quelli che eccellono in più di una olimpiade. 4 anni di preparazione fisica e mentale per una performance di alcuni minuti/secondi che determinerà l’andamento di una carriera.

M. Phelps che ha vinto e stravinto davvero tutto! 23 medaglie olimpiche, non è un “meditatore” compulsivo ma quando gli hanno chiesto cosa pensasse ai blocchi di partenza ha risposto con disarmante semplicità: “niente”. 

Se ora guardiamo all’apnea, siamo in grado di definire quali benefici e in che misura otterremmo dalla pratica di mindfulness? 

Abbiamo deciso di fare un esperimento! Abbiamo chiesto a 3 apneisti veri, sinceri: Nicola Manfredi, Alessandro Unali e Giovanni Bianco, che hanno deciso di partecipare alla prima edizione del corso Mindfulness per Esploratori, di raccontarci se e come le loro performance si modificano nel tempo e se ci sono anche altri benefici, forse inaspettati.

Federico Mana e Rossella Elisio hanno progettato un sistema di feedback per misurare quantitativamente e qualitativamente tramite indicatori i benefici che il corso e la pratica costante produrranno sulle loro abilità e competenze. Indicatori qualitativi legati all’auto-percezione e indicatori quantitativi misurabili per confrontare l’andamento nel tempo delle variabili che i nostri trainer hanno individuato come elementi chiave della performance. Questo sistema di misurazione, specifico per l’apnea si affianca al test FFMQ, un questionario che ogni partecipante svolgerà all’inizio e alla fine del corso per autovalutare i progressi compiuti.

I nostri tre atleti, o meglio i nostri esploratori, a partire dalla terza settimana racconteranno alla comunità Moving Limits come e cosa stia cambiando nel loro modo di fare apnea.  Per le prime due settimane lasceremo che si godano l’esperienza senza altre pre-occupazioni o compiti.  Cercare risultati infatti, rischia di farci perdere di vista ciò che sta emergendo dal momento presente e chiude quello stato di flow, di totale immersione nell’esperienza, ci cui si è detto sopra.

L’apnea non è forse una meravigliosa metafora della vita? È possibile separare l’apneista e l’individuo?

Queste ultime 2 erano un po’ alla Marzullo e sarà difficile tradurle in inglese ma, non ho resistito!

A presto,

Giacomo

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