…poi è arrivata l’acqua

Mi piace l’aria fredda di montagna che mi punge la faccia la mattina presto, quella detta ‘aria frizzantina. Pura elettricità per me. Certo, questa non è la frase migliore con cui iniziare a scrivere su un magazine dedicato all’apnea e all’acqua, ma per me è iniziato tutto da qui, dal piacere di quest’aria frizzantina, che mi energizza e che mi asciuga i pori della pelle dall’umidità cittadina. Penso che ognuno di noi abbia un elemento in cui si riconosce, in cui è un po’ più a proprio agio e riesce a essere più libero, libero di muoversi, libero di sentire. Il mio elemento è sempre stato l’aria, l’aria degli spazi aperti, l’aria della montagna e dei boschi di collina, quella smossa dai ruscelli gelidi, quella che sfiora la neve e il ghiaccio e che attraversa le fitte trame dei rami di pino e di castagno. L’aria, come fonte di ossigeno, archetipo di leggerezza e inconsistenza. Fino a pochi anni fa l’acqua era un elemento lontano da me, sconosciuto, che non mi suscitava alcun desiderio di contatto. L’acqua ha avuto sempre pochi e semplici compiti per me: dissetarmi, a temperatura ambiente; lavarmi, molto calda, quasi bollente. Capitava che d’estate andassi al mare e con l’acqua vivevo cauti sfioramenti, piccole coccole per togliermi gli effetti della calura agostana. Anche le frequentazioni delle piscine milanesi erano rare. Sin dall’infanzia, istruttori poco motivati e corsi di nuoto forzati hanno sicuramente contribuito alla mia avversione al contatto con l’acqua. Il nuoto era da fare perché faceva bene. Faceva bene come uno sciroppo. Ma come ogni medicinale, anche il nuoto aveva su di me i suoi eventi avversi. Mi faceva venire verruche in grande quantità, non so quante ne ho bruciate, e le cuffiette di silicone ogni volta mi portavano via lo scalpo, nonostante mettessi kilate di borotalco anche in testa, tanto da sentirmi un pandoro in costume.

Un giorno d’inverno di circa sei anni fa mi trovavo in montagna e sul finire della notte fui svegliata dall’ennesima apnea notturna. Ne soffrivo da un po’ di tempo. Non riuscii a riaddormentarmi e stava per albeggiare, così decisi di uscire fuori di casa per prendere un po’ d’aria. Quando mi svegliavo da una crisi apnoica ci voleva un po’ di tempo per riprendermi. Mi affaticava, mi spaventava, mi rendeva del tutto vulnerabile. 

L’aria frizzantina di quella mattina mi aveva portato un consiglio, mi suggerì di trovare un modo per rendere quei momenti meno spaventosi. Così poco dopo mi iscrissi ad un corso di apnea. Pensai che fare apnea consciamente avrebbe potuto ridimensionare quelle che vivevo nel mio inconscio. Piccolo inconveniente: l’apnea si fa in acqua. Ma accettai la scommessa di portare a termine il corso. L’acqua della piscina Cozzi è gelida. Nelle prime lezioni provai tutte quelle brutte sensazioni a me ben note. In più non capivo nulla delle lezioni di teoria. Ero inebetita da nozioni a me oscure, quali la compensazione, la pinneggiata, la pesata. C’ho messo un po’ a capire cosa volesse dire compensare, non sapevo che il gesto che avevo sempre fatto fino ad allora in aereo per non farmi scoppiare i timpani, potessi riproporlo in piscina. Monica in piscinaNon sapevo nemmeno ci fosse un punto neutro in acqua, in cui resti in perfetta sospensione, senza riaffiorare in superficie e senza affondare, provarlo per la prima volta è stato commovente. Non sapevo che avere delle pinne ai piedi mi avrebbe permesso di scoprire la mia acquaticità. Non sapevo che trattenere il fiato in acqua, galleggiando in statica, potesse dare addirittura delle sensazioni di piacere. Mi stavo muovendo in un terreno del tutto nuovo, in un elemento che fino a quel momento era stato per me ostile. Ero in esplorazione, con la cautela di un’adulta ma con la curiosità di una bambina e, passo dopo passo, scoprivo cose nuove di me, sorprendendomi dalle piccole conquiste. I primi due anni, ho fatto apnea solo con me. Ero io con l’acqua, l’acqua tra me e me, il mezzo di comunicazione. In costante avevo tanta paura che mi irrigidivo, tenevo gli occhi chiusi per non guardare, non per sentirmi. Col tempo sono diventata più cosciente del mio corpo, di me e gli occhi hanno iniziato a chiudersi per godere del percorso. Piano piano ho iniziato a sentire dove mi trovavo, a che profondità e in caduta ero pronta ad accogliere il buio e la pressione. Da qui ho cambiato il mio modo di fare apnea. Ho spostato il mio sguardo e la mia attenzione anche verso gli altri, i miei compagni, in acqua con me. L’apnea mi ha insegnato tutto questo, pazienza, coraggio, ascolto di me e degli altri. Ma più di ogni altra cosa, ogni volta che mi tuffo mi sento in contatto con la natura e l’universo. E tutto quello che mi preoccupa e mi stanca nel quotidiano, lo vedo piccola cosa di fronte all’infinito.

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